Nulla, probabilmente, se non la recente e duplice pronuncia dell’Adunanza Plenaria sulla proroga automatica delle concessioni demaniali, sarebbe meglio in grado di rappresentare gli effetti della grave crisi politico-istituzionale che attanaglia il Paese. Intervenuta per affrontare gli esiti provocati da tale crisi sul sistema turistico-balneare, essa ha finito per inverarne le conseguenze; ha mostrato di replicarne la rappresentazione, quasi a condensare in sé molte di quelle torsioni che hanno cadenzato il trentennio dell’infinita transizione ancora in corso: indecisione della politica; supplenza della magistratura; squilibrio fra i poteri; sovrapposizione dei ruoli; abdicazione del comando nazionale a favore di quello europeo (“Ce lo chiede l’Europa!”); sbilanciamento fra i principi (concorrenza vs. gli altri); forzature nel sistema delle regole di diritto (prevalenza della regola giurisprudenziale su quella legislativa, retroattività della prima anche a discapito del giudicato contrastante) e così via. La pronuncia esprime dunque il segno dei tempi. Dimostra come nel sistema costituzionale tutto sia connesso, sicché l’anomalia di un fattore (crisi della politica) si ripercuote a cascata sugli altri, provocandone una pari anomalia (crisi della separazione dei poteri) e incidendo negativamente sulla tenuta degli elementi più prossimi alla vita sociale (economia locale, piccola impresa, identità turistica dei singoli territori e via dicendo). E così, paradossalmente, intervenuta per favorire lo sviluppo del sistema balneare, la pronuncia dell’Adunanza Plenaria rischia di risolversi a suo danno, mancando della necessaria legittimazione per agire in supplenza degli altri poteri. Quanto al contenuto, apparentemente la pronuncia è lineare e conseguente. Essa ribadisce la primazia del diritto eurounitario su quello nazionale anche con riguardo alla direttiva Bolkestein; espone le ragioni di critica verso una proroga delle concessioni dalla durata effettivamente oltraggiosa anzitutto del buon senso (13 anni giustificati dall’emergenza Covid!), prima ancora che dei principi coinvolti; procrastina l’efficacia delle concessioni in vigore entro un termine biennale perentorio e vincolante lo stesso legislatore (31 dicembre 2023); esclude per il prosieguo la permanenza del diritto concessorio degli eventuali titolari, anche se già legittimati da una sentenza passata in giudicato; afferma la necessità di una complessiva riforma del settore, indicandone compiutamente i principi e i criteri direttivi (peraltro già ripetutamente suggeriti dal Tar Lecce). Da tale punto di vista, insomma, più che un semplice “monito”, la pronuncia presenta un vero e proprio “diktat” al legislatore, finalizzato a impegnarlo acompilare una riforma “a rime obbligate” con riguardo ai tempi e ai contenuti. Il problema, tuttavia, è che un tale tipo di sentenza non rientra nemmeno nello strumentario della Corte costituzionale. Neanche la Consulta può ingerirsi in modo così marcato nel processo legislativo. Non è possibile chiedere al Parlamento di riempire passivamente le caselle di una riforma preconfezionata da un altro organo, specialmente se di natura giurisdizionale. Nella separazione dei poteri la rappresentanza politica appartiene al Parlamento e non al potere giurisdizionale. Il rilievo apre la via a una seconda considerazione. Non esistono riforme perfette, ma solo perfettibili e adeguate alle concrete esigenze culturali, sociali ed economiche del contesto di riferimento. Si tratta di una lezione che l’esito infausto della Seconda Repubblica avrebbe dovuto…