Concessioni balneari: sì all’obbligo di motivazione negativa alla permanenza dell’opera

Una legge regionale non può disporre il mantenimento per l’intero anno delle strutture precarie e amovibili interessanti aree paesaggisticamente vincolate (per gli stabilimenti balneari), in deroga alle norme che subordinano ad autorizzazione paesaggistica ogni intervento su immobili o aree di interesse paesaggistico. Il mantenimento delle opere al termine della stagione estiva si pone quale eccezione alla regola della stagionalità dei manufatti, ma ciò non può tradursi in una dequotazione dell’obbligo di motivazione del parere negativo espresso dalla Soprintendenza. Lo stabilisce il Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 6 dicembre 2021, n. 8083.

Se persevera la Seconda Repubblica. Riflessioni a caldo sulle sentt. nn. 17 e 18/2021 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato

Nulla, probabilmente, se non la recente e duplice pronuncia dell’Adunanza Plenaria sulla proroga automatica delle concessioni demaniali, sarebbe meglio in grado di rappresentare gli effetti della grave crisi politico-istituzionale che attanaglia il Paese. Intervenuta per affrontare gli esiti provocati da tale crisi sul sistema turistico-balneare, essa ha finito per inverarne le conseguenze; ha mostrato di replicarne la rappresentazione, quasi a condensare in sé molte di quelle torsioni che hanno cadenzato il trentennio dell’infinita transizione ancora in corso: indecisione della politica; supplenza della magistratura; squilibrio fra i poteri; sovrapposizione dei ruoli; abdicazione del comando nazionale a favore di quello europeo (“Ce lo chiede l’Europa!”); sbilanciamento fra i principi (concorrenza vs. gli altri); forzature nel sistema delle regole di diritto (prevalenza della regola giurisprudenziale su quella legislativa, retroattività della prima anche a discapito del giudicato contrastante) e così via.

La pronuncia esprime dunque il segno dei tempi. Dimostra come nel sistema costituzionale tutto sia connesso, sicché l’anomalia di un fattore (crisi della politica) si ripercuote a cascata sugli altri, provocandone una pari anomalia (crisi della separazione dei poteri) e incidendo negativamente sulla tenuta degli elementi più prossimi alla vita sociale (economia locale, piccola impresa, identità turistica dei singoli territori e via dicendo). E così, paradossalmente, intervenuta per favorire lo sviluppo del sistema balneare, la pronuncia dell’Adunanza Plenaria rischia di risolversi a suo danno, mancando della necessaria legittimazione per agire in supplenza degli altri poteri.

Quanto al contenuto, apparentemente la pronuncia è lineare e conseguente. Essa ribadisce la primazia del diritto eurounitario su quello nazionale anche con riguardo alla direttiva Bolkestein; espone le ragioni di critica verso una proroga delle concessioni dalla durata effettivamente oltraggiosa anzitutto del buon senso (13 anni giustificati dall’emergenza Covid!), prima ancora che dei principi coinvolti; procrastina l’efficacia delle concessioni in vigore entro un termine biennale perentorio e vincolante lo stesso legislatore (31 dicembre 2023); esclude per il prosieguo la permanenza del diritto concessorio degli eventuali titolari, anche se già legittimati da una sentenza passata in giudicato; afferma la necessità di una complessiva riforma del settore, indicandone compiutamente i principi e i criteri direttivi (peraltro già ripetutamente suggeriti dal Tar Lecce).

Da tale punto di vista, insomma, più che un semplice “monito”, la pronuncia presenta un vero e proprio “diktat” al legislatore, finalizzato a impegnarlo acompilare una riforma “a rime obbligate” con riguardo ai tempi e ai contenuti. Il problema, tuttavia, è che un tale tipo di sentenza non rientra nemmeno nello strumentario della Corte costituzionale. Neanche la Consulta può ingerirsi in modo così marcato nel processo legislativo. Non è possibile chiedere al Parlamento di riempire passivamente le caselle di una riforma preconfezionata da un altro organo, specialmente se di natura giurisdizionale. Nella separazione dei poteri la rappresentanza politica appartiene al Parlamento e non al potere giurisdizionale.

Il rilievo apre la via a una seconda considerazione. Non esistono riforme perfette, ma solo perfettibili e adeguate alle concrete esigenze culturali, sociali ed economiche del contesto di riferimento. Si tratta di una lezione che l’esito infausto della Seconda Repubblica avrebbe dovuto insegnare. Non si può trascurare che le trascorse riforme (privatizzazioni, Titolo V, federalismo fiscale, fiscal compact, giustizia, ecc.), nonostante le celebrate “magnifiche sorti e progressive”, hanno finito per peggiorare la situazione del Paese. A maggior ragione occorre riflettere nella specie. Le riforme non possono essere demandate a un organo giurisdizionale, perché presuppongono una composizione e mediazione di interessi opposti che è tipica della politica e non della giurisdizione, cui spetta invece il diverso e delicato compito di verificarne la ragionevolezza.

Né vale giustificare l’incomprensibile rigidità della pronuncia con la necessità di adeguare il sistema nazionale ai precetti della direttiva Bolkestein (ancora una volta: “ce lo chiede l’Europa!”). Su detta direttiva, infatti, sono stati avanzati una serie di dubbi, la cui soluzione avrebbe dovuto comportare il rinvio della questione all’organo apposito, che è la Corte di giustizia europea, anziché una diretta e opinabile liquidazione da parte della medesima Adunanza (ancora una sovrapposizione dei ruoli). Il primato del diritto eurounitario, del resto, costituisce l’esito di una composizione fra Corti nazionali e sovranazionali, non invece la risultanza dell’imposizione indiscriminata degli organi europei. Non per nulla si parla al riguardo di diritto “misto” e non monolitico.

Né tantomeno può dirsi che un rinvio pregiudiziale alla Corte europea avrebbe rischiato di diluire i tempi della riforma, consolidando lo status quo e favorendo le lobby dei balneari. È tutto il contrario. Le riforme necessitano di certezze giuridiche e non di zone grigie. Si pensi alla questione degli indennizzi, prospettati dall’Adunanza Plenaria a favore degli attuali concessionari, ma al momento impediti dalla sopravvenuta modifica del codice di navigazione: nel 2009 fu proprio il Governo, stretto dal timore della procedura d’infrazione avviata dalla Commissione europea e incerto sulle proprie competenze statali, a sopprimere il diritto d’insistenza, il quale invece riconosceva al concessionario un titolo di preferenza rispetto agli altri istanti in caso di rinnovo delle concessioni.

E che dire del termine del 31 dicembre 2023? Esso è stato fissato dall’Adunanza per dare il tempo al legislatore e alle amministrazioni locali di avviare il nuovo sistema balneare, con il preavviso che nel caso d’inutile decorrenza “tutte le concessioni demaniali in essere dovranno considerarsi prive di effetto, indipendentemente dal fatto se via sia – o meno – un soggetto subentrante nella concessione”. Occorre chiedersi: veramente sarà possibile assicurare certezza normativa e adeguate garanzie economiche ai vecchi e ai nuovi imprenditori balneari entro un simile e ristretto tempo?

Ci si rende conto che in Italia finanche il termine del c.d. bonus del 110% è stato prorogato per la difficoltà delle amministrazioni di sovvenire alle richieste dei cittadini? E che succederà nell’estate 2024? Come farà l’Italia a essere competitiva sul mercato balneare internazionale? Come farà a superare la concorrenza dei restanti paesi europei del mediterraneo (Spagna, Portogallo, Francia, Grecia e Croazia), i quali invece hanno perseguito l’obiettivo concorrenziale dell’Unione europea in maniera diversa e adeguata alle proprie specificità? E perché all’Italia dovrebbe essere inibito ciò che invece gli altri Paesi è consentito?
L’industria turistico-balneare è stata forse l’unica a resistere sinora ai tentativi riformatori della Seconda Repubblica.

Per l’appunto: sinora.

www.dirittifondamentali.it